Settembre 2014, ospedale di Matany (Uganda settentrionale):
Simonetta Masaro, 30 anni, nata e cresciuta a Villa d’Asolo ( Treviso ) medico, è al quinto anno di specializzazione in chirurgia all’Università di Trieste. E’ arrivata all’ospedale di Matany all’inizio di giugno e dice: “Non mi sono mai sentita così bene e così utile.”
E’ felice, scrive Calabresi, di essere momentaneamente fuggita alla sensazione che tanti giovani italiani provano, quella “di disturbare il mondo degli adulti, quelli che sono dentro e non hanno nessuna voglia di aprirti la porta, perché tanto (…) non c’è posto.”.
A Matany, Simonetta ha 100 pazienti da seguire, mentre a Trieste era uno dei 25 specializzandi per 35 posti letto e il suo lavoro consisteva nel provare la febbre e compilare la cartella clinica.
Però, prima che partisse, molti avevano cercato di convincerla che la sua era una scelta sbagliata, da perdente che fugge dalla realtà.
Secondo Simonetta, invece, i giovani che fanno una scelta come la sua imparano a vincere, perché sono costretti non solo ad imparare, ma a mettersi in gioco ogni giorno: “ (…) qui sei solo, esiste una piccola squadra che fa tutto e che, se non sa, deve studiare, perché i problemi sono qui, adesso e vanno risolti subito”.
E conclude: “Questo luogo sta tirando fuori il meglio di me.”
Vediamo i numeri di questa piccola squadra : 284 posti letto, 7 medici, 65 infermieri, 8 ostetriche, 4 fisioterapisti.
Visite ambulatoriali nel 2013: 39.352; ricoveri : 10.000; operazioni chirurgiche: 2089. Bambini nati:1416.
Tutto questo non esisteva fino al 1970. Furono medici italiani a fornire all’ospedale appena costruito una parte del personale, oltre all’attrezzatura di base.
Come ?
Da Milano a Matany
Gianluigi Rho, 26 anni e Mirella Capra, 27 ( zia di Giovanni Calabresi ), entrambi medici, si sposano a Milano nel 1970. Lui si sta specializzando in ostetricia, lei in pediatria.
Questa è la loro lista di nozze:
22 letti per adulti, 9 lettini, culle per neonati, lenzuola, elettrocardiografo, microscopio, lettino operatorio, microscopio, lettino operatorio, lampada operatoria, attrezzi per la chirurgia. Tutto destinato all’ospedale di Matany, in costruzione.
Gli sposi raccolgono l’equivalente di 40.000 euro di oggi.
Anche se la coppia ha ricevuto offerte di lavoro sia in Università che in ospedale, nel 1971 si stabilisce a Matany, dove rimane fino al 1976.
Un professore di Gianluigi commenta così la sua decisione di partire: “Un’intelligenza sprecata.”
Matany, 1971 – I ragazzi in bicicletta
Il dottor Rho si rende presto conto della forte ostilità da parte degli abitanti dei villaggi: pochissime donne vanno all’ospedale a partorire, mentre i genitori non fanno toccare i loro figli ad un uomo bianco sconosciuto. I bambini muoiono di diarrea, malaria, gastroenterite e tetano.
Per superare alcune delle difficoltà, mette in pratica due idee che risulteranno vincenti.
Decide di uscire dall’ospedale di pomeriggio, per andare nei villaggi, a conquistarsi la fiducia della popolazione, insieme a tre ragazzi africani, addestrati a riconoscere le malattie che colpiscono i bambini.
Contemporaneamente, comincia la formazione dei “ragazzi in bicicletta” : 12 ragazzi locali svegli, ben inseriti nella comunità, i quali, durante un corso di 6 mesi, imparano prima di tutto le più elementari norme sanitarie, poi sono istruiti a riconoscere i sintomi delle malattie più comuni, a curare la diarrea, la malaria e a seguire i malati di tubercolosi.
Le cure cominciano a funzionare e, di fronte ai bambini vaccinati che non si ammalano, la sfiducia degli abitanti dei villaggi gradatamente svanisce.
Su questa esperienza, un’intervista a Gianluigi Rho:
Matany, 2014 : una rete di sanità pubblica intorno all’ospedale
Ancor oggi, il sistema è lo stesso: fuori dall’ospedale di Matany sono pronte le biciclette, con le cartelle cliniche sul portapacchi.
Una volta al mese, i medici vanno nei villaggi, dove montano una tenda e controllano le donne incinte, fanno le vaccinazioni, il test della malnutrizione e decidono chi ha bisogno dell’ospedale.
A partire dal 2014, nella tenda si può fare anche un’ecografia.
Tutto è partito dalla proposta rivolta a sei giovani coppie milanesi e dalla scelta di Gian Luigi e Mirella, che nel 1970, durante la sua prima visita a Matany, scrisse ai familiari in Italia: “Non temete per noi: la nostra vita sarà meravigliosa, ne sono sicura”.
L’ospedale oggi: una palestra per imparare a non giudicare
Una mattina, una madre arriva a Matany, dopo ore di cammino, con al collo un bambino di tre mesi ustionato al 50% del corpo. Simonetta e la sua équipe lo reidratano, lo portano in sala operatoria e gli tolgono tutto il tessuto morto. Nel giro di pochi giorni, il piccolo migliora nettamente.
Simonetta spiega alla donna che, nel corso di prossimi due mesi, lei e il piccolo devono restare in ospedale, per cambiare le medicazioni ed evitare le infezioni, quasi certe nell’ambiente del villaggio.
Due giorni dopo, il pediatra apre la riunione settimanale con la notizia che il bambino è morto, perché la madre ha smesso di allattarlo e se n’è andata.
Dolore e rabbia di Simonetta. Ma un medico africano spiega che la donna, al villaggio, aveva altri sette figli e, in stagione di raccolto, non poteva fermarsi due mesi: avrebbe condannato a morire di fame gli altri.
I fatti descritti insegnano due cose fondamentali. La prima è quella di non adattarsi accettando una realtà che non dà nulla: i coniugi Rho hanno rifiutato posti prestigiosi per sperimentare condizioni nuove e Simonetta non si è fatta influenzare da ragioni prudenziali.
La seconda è che non si ha mai finito di imparare sia a livello delle conoscenze tecniche che di quelle relazionali col prossimo.
Grazie per il commento! Maria Livia